LA BRAGA è DEL CONDOMINIO o del CONDOMINO?

Secondo la SUPREMA CORTE la braga di collegamento degli scarichi fognari condominiali, servendo unicamente a convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento, non può considerarsi bene comune.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n, 1027 del 17 gennaio 2018, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.

In proposito, la Cassazione evidenziava che, ai sensi dell’art. 1117 c.c., si “presumono comuni i canali di scarico solo ‘fino al punto di diramazione’ degli impianti ai locali di proprietà esclusiva”.

Con riferimento alla “braga” in questione (vale a dire, “l’elemento di raccordo tra la tubatura orizzontale di pertinenza del singolo appartamento e la tubatura verticale di pertinenza condominiale”), la Cassazione osservava che la stessa non serve all’uso comune, dal momento che la stessa ha l’unico scopo di “convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento a differenza della colonna verticale, che raccogliendo gli scarichi di tutti gli appartamenti, serve all’uso di tutti i condomini”.

Secondo la SUPREMA CORTE la braga di collegamento degli scarichi fognari condominiali, servendo unicamente a convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento, e non può considerarsi bene comune.

La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire alle considerazioni svolte dai condomini, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato: secondo i ricorrenti, in particolare, la Corte d’appello, nel rigettare le loro domande, non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 1117 c.c., avendo la stessa erroneamente ritenuto che la “braga di collegamento tra la condotta condominiale e quella del singolo condomino” rientrasse tra le parti comuni.

Con riferimento alla “braga” in questione (vale a dire, “l’elemento di raccordo tra la tubatura orizzontale di pertinenza del singolo appartamento e la tubatura verticale di pertinenza condominiale”),  la Cassazione osservava che la stessa non serve all’uso comune, dal momento che la stessa ha l’unico scopo di “convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento a differenza della colonna verticale, che raccogliendo gli scarichi di tutti gli appartamenti, serve all’uso di tutti i condomini”.

Nel caso di specie, dunque, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva erroneamente ritenuto che la “braga” costituisse un bene comune, ponendo, altrettanto erroneamente, a carico del condominio la relativa riparazione.

 

I PUBBLICI DIPENDENTI POSSONO LAVORARE ANCHE DAI PRIVATI?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28797 del 30 novembre 2017, si è occupata proprio della  questione dei pubblici dipendenti che lavorano con contratto a chiamata presso privati oltre all’orario di lavoro  ,  fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.  Infatti,  l’art. 60 del d lgs. n. 165 del 2001 vieta al pubblico dipendente di esercitare il commercio o l’industria e di assumere ‘impieghi alle dipendenze di privati’. 

Nello specifico, al lavoratore in questione era stato contestato di avere, in costanza di rapporto di lavoro con l’ente pubblico, sottoscritto un altro contratto di lavoro, a chiamata, con una società privata.

La Corte di Cassazione ha ritenuto di dover aderire alle considerazioni svolte dalla Corte d’appello, rigettando il ricorso proposto dal lavoratore, in quanto infondato.

Osservava la Cassazione, in proposito, che il contratto collettivo di categoria imponeva al dipendente di “non attendere, durante l’orario di lavoro, a occupazioni estranee al servizio e rispettare i principi di incompatibilità previsti dalla legge e dai regolamenti e, nei periodi di assenza per malattia o infortunio, non attendere ad attività che possano ritardare il recupero psico fisico”.Rilevava la Cassazione, inoltre, che il rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni “è caratterizzato dall’obbligo di esclusività”, in virtù di quanto previsto dall’art. 98 Cost., il quale stabilisce che i pubblici impiegati siano “al servizio esclusivo della Nazione’” e a tutela del principio di imparzialità. 

 

 

 

I BALCONI SONO PARTI COMUNI?

I BALCONI SONO PARTI COMUNI?

I balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni ma il rivestimento del parapetto e della soletta devono invece essere considerati beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l’edificio.

L’azione volta ad ottenere la condanna di un condomino alla demolizione, al ripristino o al mutamento dello stato di fatto degli elementi decorativi dei balconi condominiali, deve essere proposta nei confronti di tutti i condomini?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30071 del 14 dicembre 2017, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.

Il caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione ha avuto come protagonista il proprietario di un appartamento sito in un condominio, il quale aveva agito in giudizio nei confronti di un altro condomino, al fine di ottenere la condanna dello stesso ad “eliminare le cause della caduta d’acqua dal balcone dell’unità immobiliare di sua proprietà”.

Il Tribunale aveva accolto la domanda dell’attore ma la Corte d’appello aveva dichiarato la nullità di tale sentenza, in quanto “i parapetti aggettanti dei balconi dell’edificio (…), per loro forma, materiali e colore”, avevano la “funzione di accrescere la gradevolezza estetica del fabbricato” e, pertanto, rientravano tra le parti comuni dell’edificio, ai sensi dell’art. 1117 c.c., con la conseguenza che avrebbero dovuto essere chiamati in giudizio tutti i condomini.

Ritenendo la decisione ingiusta, il condomino interessato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole. La Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di dover aderire alle considerazioni svolte dalla Corte d’appello, rigettando il ricorso proposto dal condomino, in quanto infondato. Osservava la Cassazione, in proposito, che, “mentre i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell’articolo 1117 c.c., non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, né essendo destinati all’uso o al servizio di esso, il rivestimento del parapetto e della soletta devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l’edificio”.

Pertanto, secondo la Cassazione, l’azione di un condomino volta ad ottenere la condanna di un altro condomino alla “demolizione, al ripristino, o comunque al mutamento dello stato di fatto degli elementi decorativi del balcone di un edificio in condominio”, deve essere proposta nei confronti di tutti i partecipanti al condominio stesso, i quali devono considerarsi “litisconsorti necessari”.

 

 

HO DENUNCIATO IL TITOLARE ORA PUO’ LICENZIARMI ?

PUÒ ESSER LICENZIATO IL LAVORATORE CHE DENUNCIA IL DATORE DI LAVORO? 

Non può essere licenziato per giusta causa il lavoratore che querela il datore di lavoro, a meno che non venga dimostrato il carattere calunnioso della denuncia.

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22375 del 26 settembre 2017, si è occupata di un altro interessante caso di impugnazione del licenziamento intimato per “giusta causa” (art. 2119 c.c.).

Nel caso esaminato dagli Ermellini, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, resa dal Tribunale della stessa città, aveva confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa del dipendente, il quale aveva presentato una denuncia-querela nei confronti del legale rappresentante della società datrice di lavoro, fondata su accuse non veritiere.

Di conseguenza, secondo la Corte d’appello, la condotta posta in essere dal lavoratore era stata idonea a ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia che deve sussistere tra lavoratore e datore di lavoro, tanto da escludere la possibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro.

Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
La Suprema Corte, riteneva, in effetti, di dover dar ragione al lavoratore, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
In effetti, doveva escludersi che: “la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell’azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento”, a meno che non venga dimostrato “il carattere calunnioso della denuncia medesima e quindi la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi”.

Sul punto, la Corte, aveva anche precisato che l’esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall’ art.333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato agisca nella piena consapevolezza della insussistenza dell’illecito o della estraneità allo stesso dell’incolpato”.

Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte accoglieva il ricorso proposto dal lavoratore, rinviando la causa al giudice d’appello, affinchè la questione venisse decisa, sulla base dei principi sopra enunciati.

 

 

 

IL CAPO PUO’ CONTROLLARE IL MIO PC ?

IL CAPO PUÒ ISPEZIONARE IL PC AZIENDALE?

La Corte di Cassazione, con la sentenzan. 22313 del 3 novembre 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in ordine al diritto del datore di lavoro  di controllare il materiale informatico assegnato ai propri dipendenti.

Secondo la Suprema Corte il datore di lavoro può sempre procedere all’ispezione ed al controllo del pc aziendale assegnato al proprio dipendente ma con modalità tali da non lederne la privacy.

Infatti la Cassazione accogliendo il primo motivo del ricorso  (in  applicazione del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 e dell’articolo 2104 c.c.)  sostiene che chi è chiamato a verificare il rispetto delle norme in materia di sicurezza informatica può apprendere il contenuto dei files che si trovano nello strumento informatico affidato dall’azienda al lavoratore, sicché la condotta di chi impedisca tale verifica deve essere qualificata come illegittima.

Secondo la Cassazione il primo motivo del ricorso è fondato nei sensi di seguito indicati.
Occorre premettere che il motivo non attiene alla materia dei c.d. controlli a distanza disciplinati dall’art. 4 della L. n. 300 del 1970, né all’utilizzo dei dati desunti dal computer aziendale, ma del controllo da parte del datore di lavoro sull’utilizzo dello strumento presente sul luogo di lavoro e in uso al lavoratore per lo svolgimento della prestazione.                                                                                 
Ed infatti, il datore di lavoro può effettuare dei controlli mirati (direttamente o attraverso la propria struttura) al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro (cfr. artt. 2086, 2087 e 2104 cod. civ.), tra cui i p.c. aziendali; nell’esercizio di tale prerogativa, occorre tuttavia rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché, con specifico riferimento alla disciplina in materia di protezione dei dati personali dettata dal D.lgs 196 del 2003, i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori), di pertinenza e non eccedenza di cui all’art. 11, comma 1, del Codice; ciò, tenuto conto che tali controlli possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti, o di dati di carattere sensibile (cfr. sul punto Cass. civ. 05-04-2012, n. 5525 e n. 18443 del 01/08/2013).